L’invidia è un’emozione complessa, dalla natura sociale, uno stato d’animo universale e, quindi, comune a tutti noi.
La parola deriva dal latino ‘in’ (avversativo) e ‘videre’, cioè vedere, e significa guardare male, contro, in modo ostile.
Consiste nel provare disagio, fastidio ed irritazione perché un altro possiede oggetti e/o qualità (come la bellezza, per fare un esempio) che non si ritiene di avere oppure perché ha una posizione sociale migliore, è una persona più realizzata, di maggiore successo, ecc… Si traduce, da un lato, in vero e proprio dolore e sofferenza personale per chi la vive e, contemporaneamente, dall’altro, in astio e rancore verso il soggetto invidiato.
Non è tanto il desiderio di possedere quello che l’altro ha a caratterizzarla, quanto quello di privare di ciò colui che, per il semplice fatto di essere e/o avere di più, viene considerato un avversario. Esprime, infatti, un atteggiamento di rivalità ed aggressività nella relazione con l’altro.
L’invidioso ha, più o meno intensamente e coscientemente, voglia di fare del male a chi invidia, desidera il suo insuccesso e il suo fallimento, gode delle sue disgrazie, si diverte, attraverso pettegolezzi infondati e critiche ingiustificate, a parlarne male con gli altri, ecc..
La persona invidiata è odiata, attaccata, denigrata e svalutata dall’individuo invidioso.
L’invidia, spesso confusa con la gelosia, non presenta, tuttavia, come quest’ultima (che, a differenza della prima, riguarda prevalentemente l’ambito affettivo relazionale), la paura di perdere l’altro e la relazione.
Solitamente si invidia soprattutto chi si conosce, chi è più vicino e simile a sé.
Si tratta dell’emozione più nascosta, rifiutata e negata (tutti la provano, nessuno la confessa, spesso neanche a se stesso!) perché comunemente considerata immorale e poco evoluta (l’invidia è per molti tipicamente infantile!). Viene ritenuta meschina, maligna, velenosa, e, subdolamente, dannosa e pericolosa. In quanto causa di deterioramento e rottura dei rapporti, è, perlopiù, socialmente distruttiva. L’intenzione è annientare l’altro a tutti i costi per elevare se stessi.
La dottrina cattolica la annovera tra i sette peccati capitali. Dante mette gli invidiosi nel Purgatorio con gli occhi cuciti. Per Schopenhauer “è naturale all’uomo, e tuttavia costituisce, in un tempo stesso, un vizio e un’infelicità”.
Da sempre al centro dell’interesse della psicologia, Freud parlava dell’invidia del pene da parte della bambina di fronte alla scoperta del genitale maschile mentre M. Klein la considerava uno stato evolutivo da affrontare nella crescita per approdare al sentimento più maturo della gratitudine.
Nasce, nella relazione, dal confronto con l’altro, da una competizione dalla quale, tuttavia, l’invidioso esce sempre perdente.
Nasconde, infatti, una confessione, per dirla con le parole di H. De Balzac, di un profondo senso di inferiorità.
Se sgradevole, incresciosa e gravosa per chi la subisce, altrettanto spiacevole e lesiva è per chi la prova.
L’invidioso non è mai felice (T. Roosevelt la definisce la ladra della gioia), spesso alle prese con sensazioni di frustrazione, malessere ed inadeguatezza. Sente sempre di non essere all’altezza, avverte che gli manca continuamente qualcosa, quello che, ingiustamente, l’altro, invece, ha.
L’invidia ha effetti devastanti su chi la vive e sulla sua autostima. Lo consuma e lo corrode dentro, gli fa sprecare tempo e energia.
Invece di occuparsi, in modo vantaggioso e profittevole, di sé e della propria vita, l’interesse dell’invidioso è, infatti, ossessivamente rivolto all’altro, centro, perennemente, della sua attenzione e dei suoi pensieri.
Nelle situazioni estreme, può diventare patologica fino alla follia omicida.
In ogni caso, anche in quelli migliori, limita, distorce e falsifica la percezione di sé (non di rado come vittima sfortunata del destino), dell’altro (sempre indegno e senza meriti) e della realtà (il più delle volte ingiusta, scorretta e arbitraria).
Può diventare un tratto stabile del carattere, specie in soggetti insoddisfatti personalmente, con aspetti di debolezza dell’Io, scarsa autostima e atteggiamenti irrazionali, apatici, passivi, deresponsabilizzanti, autocommiserativi e vittimistici.
E’, spesso, soprattutto quando negata ed inibita, fonte di ansia, conflitto interiore, sensi di colpa, vergogna ed impotenza.
Al contrario, il riconoscimento, la consapevolezza e l’accettazione del confronto con l’altro, e di quanto emerge di sé (sia positivo che negativo) da tale confronto, può tradursi in sana competizione che spinge, anche attraverso l’imitazione, ad attivarsi costruttivamente per migliorare e crescere partendo, non tanto da un’accentuazione negativa di ciò che non si possiede e non si è ma, al contrario, da una valorizzazione positiva di ciò che si ha e si è.
Dott.ssa Cinzia Cefalo

Immagine dal web
Grazie una esposizione chiara e interessante in ogni sua parte.
Alessandra Panozzo
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