Nella tragedia greca di Euripide Medea, la protagonista, uccide i suoi figli per vendicarsi di suo marito Giasone che l’aveva tradita e ripudiata per una donna più giovane e bella.
Di fronte all’abbandono e in preda ad una gelosia accecante, il gesto di Medea assume il significato e lo scopo di punire il marito e rompere definitivamente ogni legame con lui attraverso lo sterminio della sua discendenza.
In psicologia si parla di Sindrome di Medea per indicare il grave e complesso fenomeno secondo il quale le madri arrivano, contro ogni logica della natura, ad uccidere i propri figli.
Diverse possono essere le situazioni e molteplici le cause e le ragioni che scatenano la follia.
Per alcune donne l’omicidio rappresenta un modo per negare e sbarazzarsi di una situazione inaccettabile, non cercata e non voluta, quindi, sin dall’inizio (ad esempio una gravidanza frutto di una violenza); per altre, in difficili condizioni psicologiche ma, non di rado, anche economiche e contestuali, è un segno di pietà verso i figli (credono di non avere possibilità materiali e concrete e/o capacità e risorse personali adatte per crescerli ed allevarli nella giusta maniera).
L’uccisione dei propri figli, inoltre, avviene, spesso, per mano di donne con gravi problematiche psichiatriche (alcoliste, borderline, tossicodipendenti, ecc..) o che, non adeguatamente sostenute ed aiutate nelle delicati fasi della gravidanza e del puerperio, arrivano a sviluppare, a causa di propri equilibri emotivo affettivi fragili e delicati, severe forme di depressione post partum.
L’atto delittuoso può essere il risultato di una gelosia estrema e patologica, di importanti deliri di onnipotenza (‘io ti ho dato la vita e io te la tolgo’), di forti ed irrinunciabili bisogni di possesso, ecc..
In campo giudiziario, invece, Jacobs parla di Sindrome di Medea nei casi di separazione conflittuale per indicare in chiave metaforica l’uccisione simbolica (quindi non reale ed effettiva) da parte della madre non tanto dei figli quanto, attraverso di essi, della figura paterna e, definitivamente ed irrimediabilmente, dei legami con essa.
In caso di separazione i figli, si sa, rappresentano, e vengono usati spesso come, uno strumento di potere, estorsione economica e rivalsa nei confronti del coniuge, come vendetta verso di lui e per farlo soffrire (un po’ come Medea verso Giasone).
Si tratta di una forma di violenza ed abuso emotivo nei confronti dei figli, nota anche come alienazione parentale (PAS o PAD), volta a distruggere il rapporto padre – figli.
La madre, con l’intento di annientare completamente la figura del partner, attua, nei suoi confronti, strategie di svalutazione, esclusione ed isolamento, arriva a denunce, adotta inganni e sotterfugi, manipolando emotivamente, plagiando e ricattando affettivamente i figli, evita gli incontri tra questi e il padre, li indottrina attraverso campagne accusatorie e denigratorie ai danni dell’ex, spesso non sostenute da elementi realistici, di solito, invece, con l’appoggio incondizionato del sistema familiare più ampio circostante. Anche in questa situazione la madre si dimostra incapace di assolvere le funzioni di protezione, tutela e sostegno verso i figli che si trovano costretti a vivere, subendola e, nella maggioranza dei casi, soffrendola, la realtà della separazione dei genitori dimostrandosi, al contrario, altamente e pericolosamente lesiva dei loro diritti e bisogni.
Gli effetti sui figli, che si vedono deprivati della possibilità di una relazione sana con il padre, sono devastanti: carenze e mancanze affettive, sviluppo di falsi sé e psicopatologie varie sono le possibili ed inevitabili conseguenze.
Dott.ssa Cinzia Cefalo