Nel campo della salute mentale ansiolitici, ipnotici ed antidepressivi vari spopolano in molte abitazioni come facili e veloci rimedi per l’insonnia, l’ansia, gli attacchi di panico, ecc., prescritti dal medico generico o, situazione ben peggiore, assunti semplicemente su consiglio e passaggio di amici e/o parenti che ne fanno, o ne hanno fatto, già uso.
Spesso si evita di approfondire ulteriormente le motivazioni del malessere e si preferisce una cura a base di pillole, convinti che, eliminato il sintomo, ci si liberi altrettanto facilmente del motivo che l’ha causato.
Purtroppo, le cose non sono così semplici e, di frequente, il problema, se non indagate le cause sottostanti e non cambiato il modo, attraverso il pensiero, l’azione e le emozioni, di rapportarvisi, si ripresenta, anche sotto forme diverse, alla prossima occasione.
Tuttavia, nella pratica clinica mi trovo anche a fare i conti con il problema inverso e cioè con quei pazienti che, più o meno momentaneamente bisognosi di affiancare la psicoterapia ad un trattamento farmacologico, rifiutano di sottoporvicisi.
Alcune persone, infatti, iniziano un percorso psicologico, lo intraprendono con costanza e tenacia ma, di fronte all’invito dello psicoterapeuta di prendere dei farmaci, manifestano una profonda resistenza ed avversione.
L’invio allo psichiatra, in questo caso, non è mai cosa facile.
Il timore maggiore, alimentato anche da scarsa conoscenza e false convinzioni, è spesso quello di sviluppare dipendenza nei confronti del farmaco e di non riuscire, quindi, più a farne a meno.
La paura è, come per una droga, di non poter smettere dopo.
Alcuni pazienti, invece, mostrano difficoltà a riconoscere di averne bisogno.
Questo atteggiamento può inserirsi in una particolare problematica psicologica sottostante al problema stesso, quella del rifiuto della dipendenza.
In altre parole, il paziente ci sta dicendo ‘E’ già tanto che sono qui e riconosco di aver bisogno di te. Ora mi metto pure a prendere i farmaci. Non credo di avere bisogno pure di loro’.
Su tale dinamica è necessario che lo psicoterapeuta lavori.
Altra preoccupazione frequente è quella di perdere il controllo: si tratta di individui che vogliono farcela a tutti i costi da soli con le proprie forze e ci tengono a rimanere nel pieno ed esclusivo uso delle loro facoltà fisiche e mentali.
Idea comune e diffusa è, infatti, che i farmaci modifichino, artificialmente e in modo permanente, pensieri ed emozioni e limitino e condizionino il modo d’essere e la libera espressione della persona.
Molti soggetti, poi, manifestano una vera e propria angoscia rispetto ai probabili effetti nocivi dei farmaci sulla salute e ai loro effetti collaterali.
Infine, prendere un farmaco dà la convinzione di essere più grave.
Comporta, inoltre, un po’ l’etichetta della follia.
Qualche volta mi sono sentita rispondere: ‘Non voglio prendere psicofarmaci. Non sono mica pazzo!’
Tutto questo nonostante le molteplici rassicurazioni al paziente da parte dello psicoterapeuta sul fatto che lo psichiatra saprà consigliare il trattamento più adatto, per dosi e tempi di somministrazione, in base alle specifiche esigenze e che la scelta del farmaco da parte del professionista sarà quella, per lui, più giusta e con minori effetti collaterali.
Quando, poi, il paziente finalmente si convince, a volte c’è il problema, non da meno, della compliance, ossia di come la terapia farmacologica viene seguita dal soggetto.
Il farmaco può venire, allora, in alcuni casi, assunto in maniera discontinua o bruscamente interrotto e addirittura ripreso, con modalità non del tutto appropriate, quando ci si accorge di aver sbagliato.
La raccomandazione al paziente è sempre quella di comunicare allo psichiatra ogni effetto che il farmaco produce su di lui e ogni esigenza che avverte rispetto ad esso (ad esempio la necessità di ridurre o aumentare il dosaggio o di cambiare tipo di farmaco), instaurando con lo specialista un dialogo continuo che permetta, a quest’ultimo, di monitorare ed aggiustare, adeguatamente ed efficacemente, la terapia farmacologica al caso specifico.
Fare di testa propria può portare, al contrario, a spiacevoli sorprese e conseguenze negative.
Come abbiamo visto il rapporto con i farmaci è spesso complicato e controverso.
Necessita, quindi, di alcuni chiarimenti.
Per prima cosa: in quali situazioni lo psicoterapeuta consiglia al paziente un trattamento psicofarmacologico inviandolo allo psichiatra?
Certamente, quando i sintomi sono troppo intensi, compromettenti ed invasivi tanto da impedire, ostacolare e/o rallentare il lavoro psicoterapeutico.
Questo può succedere in fase iniziale ma, a volte, anche successivamente, nel corso di un trattamento psicoterapeutico già avviato, quando il paziente si trova ad affrontare fasi difficili e delicate della sua vita e/o del suo percorso psicologico.
Superato questo momento il soggetto potrà rinunciare ad assumere farmaci, seguendo, con l’aiuto e la supervisione dello psichiatra, un opportuno piano di scalaggio.
In altri casi, come in quelli di pazienti con patologie più gravi, la compensazione farmacologica può rendersi necessaria anche per tutta la durata della psicoterapia e, spesso, persino dopo. Anche in queste circostanze, però, dovrà essere periodicamente rivista e continuamente monitorata.
E’ necessario, comunque, ricordare che il farmaco è un valido, ed in alcune situazioni indispensabile, aiuto al trattamento psicoterapeutico.
Non sostituisce ma affianca, sostiene e facilita l’indispensabile e duro lavoro su di sé alla ricerca delle cause del proprio malessere, delle dinamiche intra ed interpersonali che lo mantengono e delle necessarie risorse cognitive, affettive e relazionali del soggetto da attivare per il superamento dello stesso.
Dott.ssa Cinzia Cefalo