La vita, si sa, è dura e complicata. Non sempre le cose vanno come vogliamo.
Difficoltà, ostacoli ed imprevisti provocano di continuo frustrazione ed insoddisfazione.
Eventi spiacevoli più o meno fortuiti, come incidenti e perdite, causano dolore e sofferenza.
La nostra più comune reazione è l’abbattimento, la critica e il giudizio verso noi stessi che, a nostra detta, non siamo mai abbastanza bravi o in grado di fare quella o quell’altra cosa, che un po’ ci meritiamo quel che ci è successo, che non ce la possiamo proprio fare ad affrontare una situazione del genere e via dicendo.
E’ così difficile accettarci in quegli istanti. Ci sentiamo frequentemente inadeguati, incapaci ed inferiori. Insomma non ci piacciamo affatto.
Sappiamo essere veramente duri con noi stessi e, spesso, neanche ce ne accorgiamo.
I pensieri negativi che abbiamo su di noi condizionano inconsapevolmente i nostri sentimenti e le nostre azioni, rendendo tutto ancora più complicato e arduo da risolvere.
Ogni tanto, invece, soprattutto, ma non solo, nei momenti difficili, dovremmo provare a dedicarci un’attenzione affettuosa, ad esempio farci una carezza, darci un caldo abbraccio, rivolgerci un po’ di conforto e di consolazione.
Dovremmo imparare a prenderci cura di noi stessi, proprio come faremmo con una persona cara, attraverso azioni pratiche e concrete o gesti simbolici che comunichino che ci vogliamo bene e che teniamo a noi.
In altre parole dovremmo avere compassione di noi come ne avremmo per un amico in difficoltà, ma compassione non nell’accezione negativa che erroneamente e frequentemente il termine assume ma nel suo significato originale di partecipare con le emozioni alla sofferenza altrui o, in questo caso, propria.
La parola self compassion, del cui uso e studio Kristin Neff è stata pioniera in ambito clinico, indica un particolare atteggiamento di gentilezza e rispetto verso se stessi, di autoconsapevolezza e comprensione amorevole di sé nelle esperienze difficili.
L’autocompassione non può prescindere dal riconoscimento e dall’accettazione della propria umanità come caratterizzata da vulnerabilità ed imperfezione, quindi dei propri limiti e difetti e della possibilità, che abbiamo tutti noi, di compiere errori e di fallire.
Essa comporta l’ammissione della propria sofferenza e la sua considerazione come condizione normale dell’esperienza umana e, perciò, comune anche agli altri.
Il fatto che anche le altre persone provino ciò che avverto io, mi fa, perlopiù, sentire meno diverso e solo nelle occasioni critiche.
Tale atteggiamento ha importanti conseguenze sul nostro adattamento e benessere emotivo e relazionale.
Ci aiuta a combattere lo sconforto, l’ansia e la depressione. Serve per motivarci ed incoraggiarci ad andare avanti.
La self compassion consiste in atteggiamenti di self kindness (autogentilezza) contrapposti a quelli di self judgement (autocritica), di common humanity (senso comune di umanità) contro l’isolation (isolamento), di mindfulness (autoconsapevolezza) contro l’overidentification (sovrastima del proprio stato).
Essere compassionevoli verso se stessi, infine, non significa lasciarsi andare o deresponsabilizzarsi ma, all’opposto, essere partecipi e consapevoli della propria condizione esistenziale e riconoscere, in modo realistico ed autentico, il ruolo attivo che possiamo svolgere nelle diverse situazioni concrete.
D’altronde anche il diventare diversi, in un’ottica di miglioramento, ha come premessa fondamentale il riconoscere e l’accettare ciò che si è realmente in partenza.
Dott.ssa Cinzia Cefalo
Il problema vero, secondo me, è che implicitamente la società ci inculca il messaggio che avere cura di sè è sbagliato, che si tratta sempre e comunque di egoismo, che l’individuo dovrebbe in un’etica giusta annullarsi nella collettività.. difficile, poi, uscire da questo retaggio senza sensi di colpa. Soprattutto per le donne, che hanno assorbito il senso del dovere dell’accudimento…
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