Quando tanti è uguale a nessuno. Il bystander effect o effetto spettatore

     Il termine inglese Bystander Effect si traduce in italiano come effetto spettatore.

Descrive il fenomeno, ampiamente studiato in psicologia sociale, secondo il quale la probabilità di aiuto ad un soggetto in situazione di emergenza è inversamente proporzionale al numero di spettatori presenti.

In altre parole gli individui tendono meno a prestare soccorso a chi ne ha bisogno quando ci sono anche altre persone.

La presenza degli altri sembra avere l’effetto di inibire la risposta di aiuto.

 

   I primi a studiare il fenomeno furono J. Darley e B. Latané negli anni ’60, dopo il caso di Kitty Genovese, una ragazza di 29 anni violentata ed accoltellata a New York nel 1964. Nonostante le grida della giovane fossero state udite da molti, nessuno intervenne per evitare il tragico epilogo.

 

Per i due studiosi diversi  fattori condizionerebbero il comportamento degli individui in situazioni come queste.

 

Uno tra questi è quello dell’ignoranza pluralistica, cioè la condizione di ambiguità sociale in cui spesso si trovano  i soggetti,  cioè la loro difficoltà a percepire con sicurezza e certezza di trovarsi realmente di fronte a una situazione di emergenza. I presenti, in cerca di informazioni che chiariscano cosa stia succedendo, resterebbero tutti in uno stato di attesa, senza intervenire.

L’influenza sociale, il guardare, cioè, a ciò che fanno gli altri che si trovano nella medesima contemporanea situazione, condurrebbe tutti a rimanere meri testimoni o spettatori di ciò che sta avvenendo.

Il Bystander Effect, infatti, si ridurrebbe nelle emergenze più gravi e pericolose, riconosciute più chiaramente e prontamente dalle persone per i minori margini di ambiguità che il caso presenta.

Alcuni esperimenti dimostrano, perlopiù, che più informazioni la vittima dà al potenziale soccorritore e più aumenta la probabilità di un comportamento di aiuto da parte di quest’ultimo. Ciò appare, evidentemente, in sostegno dell’ipotesi sopra detta.

Inoltre, c’è la considerazione che, spesso, la percezione di ciò che sta accadendo si rivela più chiara a chi si trova da solo piuttosto che a chi si trova in una folla: al di là del contesto più o meno caotico, questo dipende, in parte, dal fatto che nella cultura occidentale è considerato socialmente inappropriato ed inopportuno guardarsi troppo intorno, cioè ‘impicciarsi’, e ognuno tende a farsi i fatti suoi.

 

Altro fattore che influisce è sicuramente quello della diffusione di responsabilità, ossia che, in presenza di tante persone, ciascuno sente minore il senso del dovere ad intervenire in prima persona in quanto ci sono tanti altri che potrebbero, comunque, farlo al posto suo. In alcuni casi il soggetto non ritiene di possedere la competenza necessaria per poter essere d’aiuto.

 

Si è osservato, poi, che la tendenza a fare qualcosa aumenta a secondo del grado della somiglianza della vittima con il soccorritore: in questo caso i meccanismi di identificazione sembrano più forti e portano ad intervenire più prontamente.

 

Infine, se l’individuo si trova in un gruppo di cui non conosce l’identità, cioè tra estranei, cosa molto frequente nelle situazioni affollate delle nostre città metropolitane, è meno spronato ad agire rispetto a se è in compagnia di amici, familiari, ecc. In quest’ultimo caso l’aspettativa sociale del dover aiutare chi è in difficoltà influenzerebbe il suo comportamento conducendolo all’azione.

Dott.ssa Cinzia Cefalo

 

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